Di recente, Einaudi ha
pubblicato per la terza volta “Goodbye, Columbus e cinque
racconti”, opera di Philip Roth.
Roth e scrittore abile e
premiato (la solita Wikipedia fornisce il palmares) ma poco
amato. Suo peccato originale, descrivere senza pietà l'alta
borghesia ebraica.
Come un medico, Roth
prende il soggetto (gli ebrei americani di classe media) e lo
seziona, portando a galla problemi irrisolti come il conflitto
tra identità religiosa e civile, i rapporti con la politica,
l'oscillare tra voglia d'integrazione e desiderio d'affermazione.
Si prenda ad esempio
“Goodbye, Columbus”.
Come prevedibile, è una
storia di ebrei. Neil Klugman è un laureato della Rutgers
University con un lavoro da bibliotecario. Klugman incontra Brenda
Patmkin: anche lei è ebrea, ma di famiglia ricca. Come prevedibile,
la famiglia di lei non accetta un fidanzato povero e dalla
prospettiva sociale modesta. La storia rivela così il lato oscuro
dei borghesi ebrei americani: a parole tolleranti, aperti
cosmopoliti, nei fatti amanti del denaro e pronti a disprezzare chi
vedono inferiore.
Se “Goodbye, Columbus”
è un fioretto, il racconto che fa guadagnare a Roth il soprannome di
“Ebreo che odio gli ebrei” è un altro.
Nel testo un
soldato ebreo cerca di evitare la chiamata alle armi tirando in ballo
una comunione di fede col sergente Marx suo diretto superiore. Una
valanga di temi caldi: la guerra, la religione, il comunismo e, su
tutti, un ebreo (il soldato bugiardo), “Furbastro e disonesto”.
Abbastanza per suscitare la reazione degli ebrei americani.
Perchè Roth è bravo, ma
non è per tutti. Leggerlo è un viaggio non semplice né gradevole
anche se il mezzo di trasporto (il linguaggio) è un inglese
raffinato, non privo di umorismo e d'ironia.
Philip Roth, “Goodbye,
Columbus e cinque racconti”, 247 pagine, Einaudi 2012
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